KUBRICK E L'ARCHITETTURA

 

Nella vita reale ogni esperienza o serie d'esperienze si presenta all'osservatore in una sequenza interrotta di spazio e di tempo. Nel cinema le cose vanno diversamente: il cinema permette salti nello spazio e nel tempo, consentendoci di estendere la nostra piccola vita all'infinito. Possiamo vedere "l'alba dell'uomo" e, un istante dopo, viaggiare su una nave spaziale verso la Luna. Con un semplice montaggio si possono mettere insieme inquadrature di situazioni prese in momenti e luoghi diversi per costruire legami non oggettivi ma concettuali o poetici. Un regista, incollando pezzi di pellicola, crea tempo e spazio ideali, crea il suo spazio e il suo tempo. In un film lo spazio perde il suo carattere statico per farsi dinamico, fluido, illimitato e aperto, mentre il tempo perde la sua ininterrotta continuità e la sua direzione invariabile. Una scimmia, tramite un rudimentale processo intellettivo, si serve come arma dell'osso di un animale ucciso. L'osso con un grido di trionfo viene lanciato in aria, e si trasforma in un'astronave; in un solo fotogramma Stanley Kubrick concentra millenni. E' una delle più celebri sequenze di 2001: Odissea nello spazio. Un capolavoro. Un film che sembra contenere il passato e il futuro di tutta la storia del cinema. E' forte quindi la tentazione di cominciare da qui.

 

2001: Odissea nello spazio, è un'odissea interplanetaria, una meditazione filoso-fica sui valori dello spazio/tempo e quindi sull'essenza stessa del cinema. E' l'opera di Kubrick che mette più a dura prova gli occhi, ogni immagine può essere tutto e nulla, un mondo aperto o un oggetto chiuso. Un corridoio luminoso infinito è la prima visione/allucinazione di Bowman ma è anche l'elemento architettonico narrativo e simbolico di tutto il film. Precisamente ci troviamo di fronte ad un corridoio "curvo", ripiegato su se stesso, così com'è l'universo secondo Einstein (l'universo è finito perché è "curvo", giacché è stato incurvato dal tempo; in altre parole se lo percorressimo per intero finiremmo col tornare al punto di partenza). Per questo tutte le architetture "galleggianti" (le astronavi) del film sono "curve" e la macchina da presa, nelle inquadrature a loro dedicate, perde ogni punto di riferimento, non trova più l'alto e il basso, la destra e la sinistra. La stazione orbitante su cui giunge il dottor Heywood Floyd (accompagnato nel suo viaggio dalle note de Il Danubio blu di Johann Strauss) è una gigantesca ruota-occhio spaziale che ricorda per enormità e movimento la Ruota del Prater di Vienna; da notare la parte ancora in costruzione: una sorta di work in progress spaziale. Sferica, o meglio a forma di testa, è poi l'astronave che porta Floyd sulla base lunare Clavius (un enorme complesso organizzato secondo cerchi concentrici). Sferica é la plancia del Discovery e sferiche sono ancora le capsule usate dagli astronauti Bowman e Poole nella terza parte del film, sferico è infine l'inquietante occhio del calcolatore HAL-9000. Ossessivamente Kubrick pone l'uomo al centro dell'inquadratura, ma è una cen-tralità che situa l'uomo in posizioni spaziali inedite, con la testa in giù e i piedi in su, oppure trasversalmente con la testa a destra e i piedi a sinistra, o in entrambe le posizioni contemporaneamente come in una litografia di Escher.  

 

La figura interna dominante è quindi il cerchio; l'astronauta corre in un corridoio per tenersi in forma fisica, corre in linea retta e il corridoio non finisce, benché sia dentro lo spazio limitato dell'astronave. E' una corsa infinita che trasmette lo stesso smarrimento della corsa del piccolo Danny per i corridoi dell'Overlook Hotel in Shining: l'albergo è concepito anche qui come una totalità infinita, ma pur sempre come una totalità conclusa. All'interno del Discovery il dominio della circolarità è ribadito dall'unico occhio di HAL e, attraverso "soggettive" dello stesso HAL, ci accorgiamo che, nonostante le immagini siano distorte, egli è l'unico "essere" a cogliere lo spazio curvo dell'astronave nella sua totalità. HAL, di conseguenza, prende più volte il posto dell'uomo al centro dell'immagine. Dopo la "morte" di HAL la circolarità del Discovery si trasforma, nella stanza neoclassica di Bowman, in circolarità temporale: attraverso poche inquadrature Bowman passa, dalla maturità alla vecchiaia, dalla morte alla rinascita. Una particolarità di tutti gli spazi sta nella presenza ossessiva del bianco (sempre luminoso) e del rosso (spesso cupo e misterioso). Bianche sono all'esterno tutte le astronavi (un'evoluzione in senso aereo-spaziale di quel "pensiero che si rende manifesto senza parole e senza suoni, ma unicamente attraverso prismi in rapporto tra loro [...] che la luce rivela nei particolari" di Le Corbusier) e bianchissimi sono i pannelli di rivestimento interni solcati, negli interstizi, da nervature che denunciano il profilo delle pareti; completamente bianca e luminosa è infine la scatola spaziale settecentesca in cui si ritrova Bowman.  

 

Rosso è invece il colore delle poltrone, sparse in una sorta di grande hall d'albergo, all'interno della base orbitante. Inondati di luce rossa (come all'interno di una camera oscura) sono le cabine di pilotaggio delle astronavi e l'interno della capsula di Bowman; rosso è, infine, l'occhio di HAL e il claustrofobico spazio in cui risiede la sua memoria. Il bianco separa con decisione il profilo esterno delle astronavi dal buio infinito dell'universo, contemporaneamente acceca e annulla le profondità all'interno. Il rosso è invece il colore di tutti gli oggetti e ambienti che hanno un rapporto più intimo con l'uomo e i suoi istinti: la tuta spaziale di Bowman, le poltrone su cui si siedono il dottor Floyd e i colleghi russi, le cabine di pilotaggio e "l'umano" cervello di HAL. L'operazione qui compiuta da Kubrick è quella di far evolvere oltre i confini ter-restri tutte le illusioni e contraddizioni del Razionalismo europeo. Sembra di scorgere la posizione dei grandi maestri del razionalismo (Gropius, Mies van der Rohe e Le Corbusier) concordi nel ritenere che l'evoluzione industriale e tecnologica se "razionalmente" usata affrancherà i popoli dall'ingiustizia sociale; l'architettura per questo aveva il compito più importante. Le differenze annullate, le tradizioni annullate, i sentimenti inutili: l'angolo retto domina il mondo. Già… il mondo… ma l'Universo? L'angolo retto può andar bene sulla Terra rigorosamente misurata e orientata ma l'Universo ha altre regole che, pur legandosi a quelle terrestri, restano misteriose ed inquietanti. Il Cerchio non può che essere la soluzione. La forma geometrica più perfetta e af-fascinante, che gli uomini hanno osservato per milioni di anni alzando gli occhi al cielo, è la forma che dominerà l'espansione umana nell'Universo. Kubrick inventa, quindi, una nuova tipologia architettonica: semplice, razionale e ripetibile nell'infinito. Le illusioni tuttavia resistono, gli errori si ripetono. L'uomo crede di dominare attraverso una forma l'indomabile. Sulla terra il razionalismo produce un apparente benessere dando alloggi a tutti in tutti i continenti non facendo i conti con l'irrazionalità che nell'uomo è presente tanto quanto la ragione. Nello Spazio questo è ancor più evidente: non appena si fa un passo oltre il conosciuto si comprende quanto poco siamo evoluti, quanta strada c'è ancora da fare, quanto grande è la nostra presunzione. Le illusioni e l'arroganza sono un pericolo e per questo che bisogna ritornare indietro, precisamente nel settecento là dove il concetto del razionalismo in architettura trova una prima applicazione storica. La camera settecentesca dove si muore e si rinasce è per il regista un mezzo per affrontare la storia e precipitare il pubblico in una nuova avventura visiva. Kubrick è noto fin da Orizzonti di gloria come un buon conoscitore del Settecento inglese, e c'è chi sostiene che su di esso sia fondata la sua concezione del cinema.

 

  In una stanza del Settecento, inquadrata secondo una prospettiva frontale fissa, un nobiluomo appare seduto di spalle, a un tavolo apparecchiato. La sala è un perfetto parallelepipedo di colore grigio-azzurro, con una luce che si diffonde dalle grandi finestre a sinistra; il silenzio assoluto è sottolineato dai piccoli suoni delle posate d'argento. La scena somiglia a quella in cui Bowman, intento alla sua solitaria colazio-ne (nella stanza settecentesca di 2001), si volta indietro, verso la porta, sentendo arrivare se stesso. Questa volta però il gentiluomo, lo Chevalier de Balibari, alza solamente il capo verso la porta sul fondo, lontana nella luce e noi vediamo con lui che qualcuno sta realmente entrando. Un uomo avanza, è Barry, il protagonista del film di Kubrick più esuberante e scenografico: Barry Lyndon, del 1975. Barry Lyndon è un film che assume un ruolo particolarmente importante nella filmografia di Kubrick perché costituisce il momento di maggiore libertà e distanza dai temi sociali, filosofici e politici che a Kubrick sono sempre stati attribuiti: violenza, politica, sesso. E' un film fortemente visivo, talmente ricco di immagini e riferimenti estetici (dovute alle vastissime ricerche condotte dall'autore) da farne la più ampia e rigorosa rappresentazione del Settecento che il cinema abbia mai prodotto. La storia viene continuamente ridotta a quadro, a immagine da mostrare, da guardare: una grande tessitura visiva iniziata in esterni, nella profondità di campi lunghissimi e nella fredda luce del nord, dove le figure si stagliano nette sugli orizzonti sconfinati, e chiusa nel fondo nero di una carrozza. La vita del protagonista è un percorso non solo narrativo ma soprattutto iconico e raffigurativo. Predomina una visione frontale dello spazio, una prospettiva sicura che conduce a uno spazio scenico geometrico. In un certo senso si tratta di inquadrature che corrispondono alla visione rinascimentale, che danno quindi un realismo elaborato e costruito simbolicamente, secondo calcoli proporzionali.

 

Quando Barry giunge nella capitale prussiana, Potsdam, basta a Kubrick una sola inquadratura per mostrarci la città. E' una veduta prospettica centrale, con un grande viale in fuga fino all'orizzonte, lungo il quale scorrono carrozze, immagine talmente rigorosa da diventare subito un concetto, un'utopia rinascimentale, l'idea di città. Tale concezione è mantenuta in tutti gli interni: le sale immense sono parallelepipedi di spazio completamente vuoti, in cui i personaggi quasi scompaiono. Decisa è la centralità con cui Kubrick riprende l'ufficio del ministro della polizia prussiana (interno che ricorda la Marble Hall di Robert Adam a Kedleston) in cui a Barry viene affidato il compito di spiare lo Chevalier de Balibari; sempre centrale, sino all'ultima scena, (quella in cui Lady Lyndon in un salone buio, seduta al tavolo amministrativo, firma l'assegno per Barry) è la visione degli interni del castello dei Lyndon, nonché di quell'interno rettangolare, spoglio, oscuro e silenzioso che è la piccionaia in cui si svolge l'interminabile sequenza del duello tra Redmond e Bullingdon (spazio che ricorda nelle croci luminose una cattedrale, emblema del sublime settecentesco e romantico). Di nuovo attraverso una rigorosa centralità è impostato il lungo carrello all'indietro che riprende l'ingresso di Bullingdon al club dove Barry si abbandona all'alcolismo. L'elemento ossessivo del film è il paesaggio; fin dalle prime scene dominano, gli sfondi naturali che, da aperti e sconfinati dell'inizio, si trasformano in paesaggi pittoreschi di un parco inglese. Questo cambiamento coincide con la conquista della ricchezza da parte di Barry e il suo stabilirsi nel castello dei Lyndon (il rozzo Barry sposa la colta Lady Lyndon: il parco inglese è la sintesi impossibile di natura e cultura). Le immagini del castello neoclassico a cupola centrale, che scandiscono la seconda parte del film, oppure la meravigliosa scenografia del parco che Barry contempla con la madre dall'alto del ponte, associano una concezione pittoresca del paesaggio inteso come giardino a una concezione romantica del giardino inteso come natura. In queste scene, girate a Howard Castle, nello Yorkshire, alla regolarità degli edifici, che deriva dallo stile neopalladiano di Inigo Jones, si oppone l'irregolarità del giardino inglese. Nello sviluppo di Barry Lyndon lo sfondo paesaggistico diventa sempre più rilevante tanto da assorbire la storia. L'ambiente naturale carica di significato le architetture e le vedute del castello di Howard (perduto nella foschie del mattino, o percorso da fuggevoli aliti di vento, o impregnato di luce pomeridiana) diventano essenziali poiché scandiscono il tempo di tutte le scene della parte conclusiva del film. L'architettura neoclassica in Barry Lyndon assume il ruolo, insieme al parco in-glese, di prigione dorata, di un mondo a sé, in cui Barry si annoia, compiendo azioni insignificanti, soffre, insieme alla moglie Lady Lyndon, per la morte del figlio, e insegue grottescamente un titolo nobiliare che non arriverà mai, ma che è l'inizio della sua disfatta. Paradossalmente le architetture più piccole, sporche e dimenticate sono invece i luoghi di maggior riscatto per Barry. In un fortilizio dalla pianta rettangolare, a un solo piano, Barry salva la vita al maligno capitano Potzdorff (che l'aveva arruolato con la forza poco prima) sollevando una trave che gli era caduta addosso in seguito al cannoneggiamento dei francesi. Nella piccionaia sopra descritta, Barry guarda senza un moto il suo rivale Bullingdon che lo ha sfidato; sparando a terra, rifiutando di usare la pistola contro il figliastro, Barry si lascia sconfiggere per diventare il simbolo romantico della colpa e del destino.

 

La passione per il Settecento, prima che in Barry Lyndon, si era affacciata nel cinema di Kubrick, come ho già detto, in Orizzonti di gloria: il film comincia con la vista del perfido generale Broulard al quartiere generale di Mireau, che è situato in un grande castello settecentesco. Ad esso corrisponde all'esterno la trincea che, nella visita del generale Mireau, è ripresa con un lungo e ininterrotto carrello all'indietro: l'ennesimo corridoio. Trincea e palazzo quindi; i due ambienti si alternano continuamente perché geograficamente vicini ma simbolicamente lontani. In un interno neoclassico si decide della vita degli uomini, in un corridoio-trincea i soldati aspettano lo scontro col nemico. Orizzonti di gloria termina su un piccolo palcoscenico improvvisato in una betto-la, dove i soldati aspettano l'ora della partenza ascoltando una canzone tedesca dalla voce di una spaurita giovane prigioniera; sempre su un palcoscenico (ma di un abbando-nato teatro, ancora una volta, settecentesco) si svolge lo scontro tra i Drughi e la banda di Billy boy, in Arancia meccanica, su di un altro palcoscenico (questa volta di un teatro a pianta circolare in ferro e cemento) Alex, il protagonista del film, dimostra la sua guarigione dopo la "cura Ludovico". La realtà diventa una recita e la recita diventa espressione della verità; una verità che in un teatro in rovina, segnato quindi dal passaggio del tempo, si dimostra ancor più efficace perché meglio conosce l'uomo. La storia di Alex non è una storia personale, bensì la storia di un gruppo, di una generazione o addirittura una vera e propria storia dell'uomo. É un film fortemente debitore dei fermenti culturali e storici del suo tempo ma contemporaneamente è lontano da ogni lettura strettamente sociologica. Secondo Kubrick, Alex è il nostro inconscio, il film diventa quindi un viaggio nella mente vista nella sua duplicità: l'io e l'es, l'occhio naturale e l'occhio truccato. Gli ambienti e i luoghi in cui si svolgono le "gesta" di Alex e del suo gruppo sono legati strettamente ed esclusivamente all'azione di cui sono scena. Il Korova Milk Bar è il luogo della prima sequenza del film, qui Alex si presenta parlando da una voce fuoricampo. Dal primo piano di Alex, che immobile guarda verso di noi, la macchina da presa inizia una lunga carrellata indietro scoprendo prima tutto il gruppo dei Drughi, tutti vestiti di bianco e con bombetta blu, seduti contro uno sfondo nero, poi, ai lati due bianchi manichini-tavolini. Via via che la carrellata indietro prosegue, scopriamo che quei tavolini compongono una doppia serie, perfettamente allineata, al centro della quale, sul fondo, rimane il gruppo dei Drughi. Questo parallelepipedo nero è il luogo di ritrovo e socializzazione del gruppo ma anche quello in cui Alex, punendo un compa-gno che sembra non apprezzare la musica di Beethoven, impone il suo ruolo di capo indiscusso.

 

La casa dello scrittore, luogo in cui si svolge forse la più celebre scena di violenza del film (quella in cui Alex prende a calci un povero vecchio inerme cantando Singing in the Rain), è un teorema geometrico, uno studio architettonico sulla simmetria e sul ritmo: una pianta probabilmente regolare divisa in due blocchi simmetrici da un lungo spazio scandito da dislivelli. La scena è ripresa inizialmente con una lenta carrellata laterale (da sinistra verso destra) che ne evidenzia la regolarità; nel momento dell'irruzione, invece, Kubrick adopera la macchina a mano: l'effetto è quello di una perdita lucida, improvvisa e drammatica dell'ordine edella tranquillità che, fino a qualche secondo prima, regnavano in quello spazio. Il Razionale e l'Irrazionale convivono nello stesso ambiente perché non sono due stati diversi ma due aspetti del medesimo stato. In questo spazio razionale Alex tornerà, in ben altre condizioni, nella seconda parte del film: la scena si apre con l'identica carrellata laterale che, invece di scoprire la moglie dello scrittore, si ferma su un culturista-aiutante che si esercita con i manubri. Alex irrompe nuovamente ma è fradicio e insanguinato dopo il pestaggio subito dai suoi ex Drughi diventati poliziotti. Interessante notare come lo scrittore, ridotto su una sedia a rotelle, è impossibilitato a misurarsi con lo spazio; e meglio si comprende quindi, se non la natura, l'origine della sua turbe psichiche. La casa di Alex è situata nel "casamento municipale 18/A-Zona Nord". Ancora una carrellata laterale ma questa volta per descrivere, nella debole luce dell'alba, uno spazio esterno disordinato e pieno di rifiuti; da qui Alex entra nell'atrio d'ingresso del "casamento", anche qui lo spazio è invaso da rifiuti. Nella casa dei genitori di Alex (un appartamento conforme ai dettami dell'edilizia residenziale popolare, verniciato a tinte squillanti alternate a tappezzerie orribili) viene sottolineata la reclusione dello stesso: l'isolato numerato in cui abita, (ovvero una casa ridotta a un numero, come per i carcerati) e la sua stanza munita di una serratura-cassaforte. In questo senso Arancia meccanica è un film fortemente claustrofobico, senza vie d'uscita. Numerosi e diversi sono i corridoi di cui Kubrick si serve in questo film. Il primo è quello che porta simbolicamente Alex e i compagni dal Korova Milk Bar al teatro abbandonato scenario dello scontro con la banda rivale; attraversandolo (in realtà si tratta di un sottopassaggio) Alex e gli altri picchiano selvaggiamente un barbone ubriaco che aveva chiesto loro qualche spicciolo. La luce che giunge dall'ingresso del tunnel trasforma i personaggi in ombre malvagie e inquietanti: nulla ci si può aspettare da loro se non violenza e terrore. Il secondo corridoio che ci viene proposto è quello della casa dei genitori di Alex: Alex si sveglia dopo la nottata "ultraviolenta" e lo percorre in mutande (la macchina da presa lo segue inquadrandolo dal basso) fino a che non si accorge che nella stanza da letto dei genitori, che sta tra il minuscolo soggiorno e la sua camera, lo aspetta l'assistente sociale che, informato sui fatti della notte precedente, lo interroga. Il significato di questo corridoio non è del tutto chiaro ma è fortemente in relazione e contrasto con quello successivo, quello che vede Alex passeggiare in un negozio di dischi vestito come un nobiluomo. Egli percorre un corridoio d'alluminio, stretto e disposto lungo il perimetro del negozio (la macchina da presa lo riprende frontalmente con una lunga carrellata all'indietro); l'espressione del volto e i modi sicuri e quasi gentili convincono due ragazze a seguirlo nel suo appartamento. Un altro corridoio è quello fatto di libri nella biblioteca del carcere che vede Alex e il cappellano conversare in privato e amichevolmente sulla "cura Ludovico": la sequenza parte con un carrello all'indietro che segue i due personaggi e prosegue bloccandosi in una inquadratura fissa sempre su di loro. I libri ai lati e al centro Alex con il cappellano: la presenza dei libri sembra "ispirare" Alex che trasforma il suo linguaggio e comportamento diventando pacato, riflessivo, dotto e mistico; la sequenza si conclude con i due che citano a memoria la Bibbia e si fanno il segno della croce. Tutti gli spazi del film sono irritanti, offensivi e ipocriti. Non c'è un solo spazio che rincuora: nemmeno quelli del sogno. Le architetture qui sono l'espressione dell'ipocrisia degli uomini, della cultura e del potere. Alle luminose e sgargianti architetture del potere intellettuale, culturale e scientifico, si accompagna il grigiore dei luoghi delle istituzioni: l'ufficio di polizia con il suo burocratico anonimato, destinato a ingrandirsi nella sala di accoglienza dei detenuti; la prigione antica e sporca come il teatro abbandonato; la sala cinematografica, in cui Alex viene sottoposto alla "cura", è il prolungamento e l'ampliamento della prigione, l'imprigionamento dello sguardo e del cervello. Anche l'asettica clinica del dottor Brodsky, apparentemente tutta luce e candore, è solo uno spazio riverniciato. Quello dipinto da Kubrick è insomma un inferno in cui nessuno si salva; il lin-guaggio di Kubrick è freddo, razionale, conseguente, che viviseziona spietatamente le contraddizioni di un mondo in cui la stanza dei bottoni non ha contatto con il mondo: questa lontananza del potere era già presente in Orizzonti di gloria, in Spartacus (1960) e nel Dottor Stranamore (1963); ritornerà in Full Metal Jacket (1987). Full Metal Jacket è forse il più teatrale di tutti i film di Kubrick, governato da una scenografia fortemente unitaria ma paradossalmente e incomprensibilmente poco rappresentativa, decisamente inverosimile. Questa scenografia, così apertamente lontana da tutte le possibili immagini del Vietnam, costituisce una sfida al buon senso, carica com'è di estraneità inquietante e nello stesso tempo pervasa da un oscuro senso di familiarità. Molto più credibile, infatti, era la rappresentazione di Michael Cimino (Il cacciatore 1978), di Francis Ford Coppola (Apocalypse Now 1979), o di Oliver Stone (Platoon 1986), con i villaggi di paglia, gli effetti speciali, i trucchi e l'intrico della foresta, in cui il Vietnam veniva ricostruito, ricomposto visivamente, come in tutti gli altri film del genere. La scelta di Kubrick sta, invece, nella decisione di rappresentare il Vietnam per disuguaglianze. E' unascelta che si fonda sulla sostituzione di elementi più che la loro ricostruzione; Full Metal Jacket e perciò un film allegorico dove non occorre che le cose si adeguino a quello che devono rappresentare. Un tale conflitto rafforza la potenza simbolica delle immagini e l'ambiguità diviene assoluta. Questa impostazione produce e scatena nello spettatore una serie infinita di associazioni, tanto che dentro questa guerra ne possiamo racchiudere numerose altre; non è la guerra in Vietnam che si vuol rappresentare ma la guerra. Kubrick cancella così il Vietnam, come cancella il nemico, per cui i marines saranno costretti a fronteggiare solo se stessi. La ricerca ostinata della contraddizione e dell'ambiguità è un costante nel cinema di Kubrick e la troviamo ovunque in questo film, a partire da un particolare che si osserva facilmente, tanto poca è l'intenzione di mascherarlo: le scene della libera uscita dei marines nella città amica di Da Nang sono girate dentro lo stesso spazio scenico in cui si svolge poi l'assalto alla città dei vietcong (Hue). Da cui si vede chiaramente che le scene di guerra e di pace sono girate nello stesso spazio teatrale: Da Nang e Hue sono la stessa città. Le scene di guerra e quelle in cui un solo cecchino invisibile tiene in scacco l'intero plotone, sono girate in un'officina del gas che Kubrick ha trovato nelle vicinanze di Londra, a Beckton, e che ha avuto ufficialmente il permesso di distruggere. Questo edificio sembra manifestare l'influenza dello stile di Gropius (Fabbrica Fagus, 1911) che emerge soprattutto nella molteplicità di aspetti e nella mutevolezza di questo complesso, la cui percezione sintetica è impossibile da un solo punto di vista. Ne consegue che la fabbrica di Kubrick non indica una vera città e neppure la sua ricostru-zione. Tuttavia sembra una città, perché come tale è ripresa e filmata; appare di volta in volta diversa, ma nello stesso tempo ci lascia capire di non essere enorme. L'oriente misterioso è stato sostituito da un grande complesso edilizio di cemento armato (l'oriente concepito quindi come riflesso antitetico e speculare del mondo occidentale), e le costruzioni che fin dall'inizio, all'ingresso della città vietnamita, apparivano misteriose e incrollabili, per tutto il film rimangono tenebrosamente sicure; neppure l'incendio finale che invade tutta la scena, neppure la muraglia di fiamme attraverso cui passa l'esercito, cantando la canzone di Topolino, sembrano cancellare o deformare quelle strutture che sono nello stesso tempo astratte e pesantemente massicce; anzi il fuoco sembra uniformarsi a loro trasformando la città in una cattedrale di fuoco.

 

Non è un caso che la situazione bellica e il film di guerra costituiscano il corpus kubrickiano più esteso: la guerra è vista come un gioco metaforico della vita, condensa-to e concentrato di essa. Questo interesse trova forse "la prima radice" nell'amore di Kubrick per gli scacchi (gioco al quale lo ha iniziato il padre, attorno ai tredici anni), gioco logicissimo che risponde a una serie di regole e rituali che devono portare istituzionalmente a un vinto e a un vincitore; un gioco che rimanda, a sua volta, quindi alla stessa logica che presiede alla guerra. Entrambi hanno infatti come fine la sopraffa-zione dell'avversario. Tuttavia ridurre il cinema di Kubrick a una formula è ingiusto. L'unica costante che io riesco a individuare è la straordinaria e geniale capacità di creare nuovi archetipi quando nessuno più se lo aspetta. E' successo con 2001: Odissea nello spazio (archeti-po puro che non si imbarazza di fronte agli effetti speciali che oggi, perfezionati, dominano le pellicole di fantascienza), con Rapina a mano armata nei confronti del noir, con Full Metal Jacket che chiude l'epica della grandezza e dell'onore per aprirsi verso la parodia, l'ignominia, l'urlo della miseria e della vergogna; ed infine è successo con Shining: l'ennesima chiusura, il riassunto di tutto un genere, l'horror. Tratto da un romanzo dell'ormai famoso Stephen King, Shining è un percorso alla ricerca delle radici del male. Un viaggio nell'inconscio che completa quello di Arancia meccanica. Sin dal suo incipit il film rivela la sua struttura labirintica e metaforica. La macchina da presa sorvola un paesaggio di montagna nordamericano (la sequenza ricorda quella finale di 2001), seguendo una piccola automobile giungiamo in un albergo di montagna, l'Overlook Hotel. La sequenza a mio giudizio significa molto, innanzitutto perché è l'unico esterno di una certa vastità che Kubrick riprende in questo film ma, soprattutto, perché ci dice immediatamente che l'albergo è completamente isolato dal mondo (per giungervi occorrono "tre ore e mezza di macchina" lungo una strada deserta dove non s'incrocia nessuno) e quindi risultato di un'inquietante connubio architettonico di comunicazione con l'esterno (nella sua funzione) e di isolamento (nella sua ubicazione); solitario come un eremita è l'albergo ma soli non lo siamo forse tutti? L'albergo neogotico, che chiude la prima sequenza, si presenta come un organi-smo di vaste proporzioni composto da tre corpi asimmetrici dalle linee in forte penden-za che si diramano da una sorta di piramide centrale; l'hotel, che ha uno strano color grigio cenere, fu costruito tra il 1907 e il 1909 (come preciserà successivamente il direttore dell'albergo a Jack e sua moglie Wendy) sopra ad un antico cimitero indiano. Il colore e la piramide trovano finalmente una strana, paurosa ragion d'essere.

 

Nella sezione successiva, intitolata "Chiusura invernale", il capocuoco Hallorann parla con il piccolo Danny e lo informa che nell'albergo sono "successe cose non proprio giuste" e che "certe cose che succedono lasciano tante tracce di quello che è accaduto" ma sono tracce che "non tutti possono vedere". E' un po' quello che accade nella nostra mente, per cui certi eventi vengono assimilati e ricordati costantemente (come quelle fotografie appese nell'albergo che ricordano feste e ricevimenti passati) altri invece scendono in quello che Freud chiamò Es, e da qui non riemergono se non sotto forma di sogni, di incubi. L'Overlook Hotel è perciò una metafora della nostra mente perché scatena i suoi incubi soltanto quando si addormenta (ovvero durante la chiusura invernale), ed anche per questo che è ripreso come un immenso labirinto dove non si sa cosa si può incontrare dietro l'angolo. "Un mese dopo" è il titolo della sezione successiva; Danny è sul suo triciclo e, seguito dalla steadycam, percorre velocemente alcuni ambienti dell'albergo, il rumore sordo delle ruote sul parquet sottolinea la sua solitaria presenza; l'Overlook Hotel si è già trasformato in vuoto angosciante, in presenza malefica. Sempre in questa sezione del film Danny e la madre entrano nel labirinto di siepi che sta di fronte all'albergo: i corridoi si spalancano e si succedono uno dopo l'altro aumentando il senso dell'attesa e dell'incubo. La siepe è un'architettura "vuota" che organizza e impone un percorso inutile; nondimeno, si tratta di un'obbligatorietà che incide direttamente sulla percezione del tempo: Jack Torrance muore, urlando come una delle scimmie del Pleistocene di 2001, perché non ha avuto il tempo di trovare l'uscita del labirinto, mentre Danny si salva perché trova nel vuoto apparente dei corridoi vegetali un sistema di riferimenti visivi legato al movimento e al tempo: l'orma dei passi sulla neve. Un segno preciso, labile, irregolare, proprio per questo, un segno che "non tutti possono vedere" nel ritmo cangiante ma identico degli angoli retti, nello spazio infinito e limitato di un'architettura intricata e abnorme. Al labirinto esterno corrispondono i corridoi all'interno, essi guideranno Danny, e il suo triciclo, in uno spazio che assumerà forme incontrollabili, dalle quali sono assenti i punti di riferimento necessari per orientarsi. La sensazione è ripresa dalle multicolori decorazioni (opposte all'uniformità cromatica del labirinto) nelle tappezzerie e nelle moquettes d'albergo.

 

Decorazioni geometriche, astratte, che esaltano la bidimensionalità del geroglifico e dei colori primari accostati sulla greca dei pavimenti di camere e corridoi. La decorazione alberghiera risulta così, in apparenza, sovrapposta alla struttura dell'edificio, ma ne condiziona di fatto l'immagine di fronte a chi percorre i suoi spazi affidandosi al solo punto di riferimento sicuro: il numero della camera. Se, per assurdo, qualcuno potesse percorre i corridoi della nostra mente credo che avrebbe sensazioni analoghe ed è possibile che abbia visioni anche più orribili di quelle che ha Danny. Se ogni stanza dell'albergo fosse come un neurone del nostro cervello e il corridoio come il neurite non ci stupiremmo di imbatterci prima o poi in quei ricordi traumatici "patogeni" che secondo Freud possono provocare l'isteria. La stanza 237 è uno di quei ricordi, Jack vi entra e ne esce profondamente trasformato; non solo, lui stesso, da quel momento, comincia a farne parte. Percorrere lo spazio dell'Overlook Hotel significa "conoscere" sequenze tempora-li diverse e parallele. Quando Jack entra nella Golden Room (che sta "trasmettendo" una festa degli anni venti), camminando lentamente tra la folla come un fantasma, non possiamo che rimanere sgomenti; sappiamo che l'albergo è deserto, chiuso, che può essere solo un'apparizione, eppure questa parola risulta inadeguata davanti a una prova fotografica del genere, davanti a un'immagine che non porta nessuna marca soggettiva, nessun indice di allucinazione della macchina da presa, ma che al contrario registra un evento reale, logico ma folle. A ricordarci che stiamo assistendo ad un incubo dell'Overlook c'è Lloyd, il barman, che non vuole essere pagato da Jack perché ha ricevuto "ordini superiori", ma soprattutto c'è il dialogo tra Jack e il cameriere Grady nel bagno bianco e rosso della Golden Room:

 

  "Mr. Grady, lei faceva il custode qui, l'ho riconosciuta, ho visto su dei giornali la sua fotografia. Lei ha fatto a pezzi moglie e figlie e poi si è sparato al cervello." "É strano, sir, ma è una cosa che non ricordo affatto." "Mr. Grady, io lo so che lei era il custode dell'albergo." "Mi dispiace di doverla contraddire ma è lei il custode dell'albergo è sempre stato lei il custode. Io lo so perché io sono qui da sempre."

 

Jack ormai fa parte della storia dell'albergo è una sua creatura, è "da sempre" il suo custode ed anche dopo la sua morte l'albergo lo tiene con sé trasportandolo, come in un falso ricordo, in una fotografia del 1921. La macchina da presa si avvicina lentamente ad una parete della Golden Room piena di piccole fotografie incorniciate, in una di queste riconosciamo, tra la folla festante, Jack Torrance che, vestito da camerie-re, ci sorride; è l'ultima immagine del film. Eliminati i riferimenti del "prima" e del "dopo" l'orrore dello spazio si presenta come l'esistere, in uno stesso punto e immagine, di più presenze, più tempi in collisione. La totalità dell'albergo è riconoscibile solo attraverso diverse sequenze-puzzle contenenti una serie innumerevole di significati. Shining, film dall'ingranaggio perfetto, è un puzzle in cui le giunture tra i pezzi reciprocamente accostati sono, di fatto, invisibili. Ogni servizio, ogni settore dell'Overlook Hotel sembra obbedire alle più sofisticate esigenze funzionali, anche se (almeno per noi) è praticamente impossibile ricostruire la pianta dell'edificio e ciascuna stanza, ciascun corridoio sembra visto per la prima volta. Il succedersi degli angoli e dei corridoi è "prevedibile" (sappiamo che, ad un certo punto, un muro si piegherà a gomito, o si aprirà in una porta), ma ciò è inutile visto che non sappiamo nulla del ritmo con il quale porte e spigoli, si alternano: e sospettiamo che non lo conosceremo mai. Né l'albergo, né il labirinto sono spazi coscientemente intellegibili dalla famiglia Torrance; dell'uno e dell'altro abbiamo due visioni d'insieme, all'inizio del film: il primo con una veduta aerea, il secondo attraverso un modello che Jack osserva nella sala immensa in cui ha deciso di scrivere il suo romanzo. In questa sequenza attraverso una soggettiva di Jack il labirinto occupa tutta l'inquadratura diventando un arabesco, una decorazione geometrica simile a quelle che ricoprono i pavimenti dei corridoi e delle camere nell'albergo; tuttavia man mano che la macchina da presa stringe verso il centro del labirinto ci accorgiamo che non stiamo affatto in una soggettiva di Jack e tanto meno stiamo guardando un modello, al centro del labirinto vediamo, infatti, che qualcosa si muove: sono Danny e la madre che, poco prima, vi erano entrati. Il labirinto oscilla, dunque, tra due dimensioni: quella bidimensionale dell'ornamento e quella tridimensionale del corridoio. La prima dimensione sembra quella più congeniale all'isteria di Jack ma quando egli si cimenta con quella tridimensionale inesorabilmente regredisce allo stato di scimmia urlante e, da qui, a inanimato blocco di ghiaccio. Nei primi film di Kubrick il procedimento dominante risulta essere una rappresentazione frontale e plurima degli oggetti e delle persone, mediante carrellate laterali il punto di vista è spesso unitario (si rispettano le regole prospettiche facendo convergere tutto in un punto) e la visione conseguentemente frontale. Lo spazio diventa perciò una scatola, negli interni, e un luogo ideale rigorosamente progettato negli esterni. Per Kubrick lo spazio è importantissimo perché utilizzato per produrre forti connotazioni simboliche: spesso nei suoi film le vicende si svolgono in spazi chiusi con limitate possibilità di muoversi per i personaggi, tuttavia lo spazio sembra sottoposto a continue possibilità di dilatazione o restringimento. I personaggi sono imprigionati nei loro spazi, spazi che misurano non solo con i passi e gli sguardi, ma soprattutto con le loro emozioni, pulsazioni e cambiamenti della frequenza respiratoria. Il corridoio è perciò lo spazio che Kubrick predilige perché appunto fortemente limitato in una direzione ma potenzialmente infinito nell'altra. Il corridoio è uno degli elementi architettonici più "superflui" dal punto di vista funzionale (non vi si abita, non vi si svolge alcuna attività); la sua superficie però ci conduce verso comportamenti significativi ovvero a luoghi carichi di valore simbolico. Lo scopo di un corridoio è sempre, infatti, "al di là" della sua esistenza. In 2001, il corridoio si identifica con il tema quadridimensionale-geometrico della circonferenza e della circolarità; nel Dottor Stranamore con la corsa del micidiale aereo che conduce alla catastrofe nucleare; ne Il bacio dell'assassino con la strada cittadina percorsa "in negativo". Altra presenza architettonica importante nel cinema di Kubrick è la finestra. Ci sono importanti finestre dietro a tutti i principali personaggi kubrickiani e quando queste si riducono cresce l'influenza sui comportamenti. Le fessure dei fortilizi contribuiscono alla vittoria del capitano Potzdorf in Barry Lyndon nonostante l'ufficiale sia ferito in seguito alla caduta di una trave del soffitto. Da una stretta apertura della sua capsula David Bowman, in 2001, riesce a tornare nell'astronave-madre per disinserire la memoria di HAL; nel lucernario di una abitazione Alex, in Arancia meccanica, cerca l'eterna liberazione dagli effetti della "cura Ludovico" tentando di togliersi la vita (e l'aver attraversato quella finestra gli farà sembrare d'aver dormito "un milione di anni"); in Shining, infine, la piccola finestra del bagno dà a Danny, la possibilità di fuggire dal padre, più tardi costretto a inseguire il piccolo nel labirinto.

 

Con pari insistenza, Kubrick attribuisce alla scala (altro elemento necessario allo sviluppo volumetrico di un edificio) una funzione non soltanto architettonica, ma figurativa e narrativa portante. La finestra regola la conoscenza dello spazio esterno e la comunicazione tra i mondi; la scala porta le medesime capacità all'interno dell'appartamento. Sulla scala esplodono gli elementi scatenanti il dramma o che determinano radicali mutamenti nella vita degli individui (esemplare è la doppia salita dei gradini pieghevoli nelle carrozze di Barry Lyndon: il falso Chevalier de Balibari che riesce a fuggire dopo l'episodio della sala da gioco; lo sconfitto Redmond accompagnato dalla madre sulla carrozza che lo porterà all'esilio) o, ancora, che imprimono alla narrazione una diversa andatura. I gradini della scala mettono in comunicazione (o separano) non solo piani architettonici e piani di narrazione, ma anche diversi tempi e modi di raccontare. Jack Torrance salendo le scale dell'enorme sala-studio in Shining pronuncia la frase "Wendy, tesoro, luce della mia vita" (parafrasi dell'incipit del Lolita di Nabokov) riproducendo, nello sguardo e nella lenta determinazione dei gesti, il comportamento di Humbert sulla scala che sarà teatro dell'uccisione di Quilty e punto di partenza per il lungo cammino a ritroso che riassume l'itinerario di Humbert verso la dissoluzione. Corridoio. Finestra. Scala. Entro queste presenze si muovono le sequenze più po-tenti girate da Kubrick. Egli sente gli spazi e i suoi elementi, ne coglie l'essenza e per questo li trasforma, li deforma (attraverso un grandangolo, un teleobiettivo o la steadycam) per toglierci quanto di assodato sapevamo su di loro e per fornire quel terzo occhio, che è la nostra immaginazione, di una singola, potente lente. Attraversando un corridoio, salendo le scale o aprendo una finestra possiamo, vivere incubi, vedere la nostra faccia invecchiata e poi rinascere, possiamo essere malefici, scoprirci violenti e assassini, bambini impauriti, oggetti di indagine e al tempo stesso indagatori. L'architettura resta comunque un mezzo per Kubrick mai un fine, la sua ricerca va oltre ma non si può non rimanere folgorati dal suo modo di avvicinarsi ad elementi che tanto ci sembravano familiari ma che in realtà hanno ancora molto da dire; una vera e propria lezione su come gli spazi possono incidere sulle nostre vite, sulle nostre emozioni e passioni e che in fondo non sono quello che sono.

 

BIBLIOGRAFIA CONSULTATA

GHEZZI E., Stanley Kubrick, La Nuova Italia, Firenze 1977.

BRUNETTA G. P. (a cura di), Stanley Kubrick: Tempo, spazio, storia e mondi possibili, Pratiche Editrice, Parma, 1985.

BERNARDI S., Kubrick e il cinema come arte del visibile, Pratiche Editrice, Parma, 1990.

EUGENI R., Invito al cinema di Kubrick, Mursia, Milano, 1995.

CREMONINI G., Stanley Kubrick: l'arancia meccanica, Lindau, Torino, 1996.

TESTO A CURA DI FRANCESCO SAVONE , corso di: "Teorie e Tecniche della Progettazione Architettonica"-Politecnico di Milano-Facolta' di Architettura

-WEBMASTER