KUBRICK E L'ARCHITETTURA |
Nella vita reale ogni esperienza o serie d'esperienze si presenta all'osservatore in una sequenza interrotta di spazio e di tempo. Nel cinema le cose vanno diversamente: il cinema permette salti nello spazio e nel tempo, consentendoci di estendere la nostra piccola vita all'infinito. Possiamo vedere "l'alba dell'uomo" e, un istante dopo, viaggiare su una nave spaziale verso la Luna. Con un semplice montaggio si possono mettere insieme inquadrature di situazioni prese in momenti e luoghi diversi per costruire legami non oggettivi ma concettuali o poetici. Un regista, incollando pezzi di pellicola, crea tempo e spazio ideali, crea il suo spazio e il suo tempo. In un film lo spazio perde il suo carattere statico per farsi dinamico, fluido, illimitato e aperto, mentre il tempo perde la sua ininterrotta continuità e la sua direzione invariabile. Una scimmia, tramite un rudimentale processo intellettivo, si serve come arma dell'osso di un animale ucciso. L'osso con un grido di trionfo viene lanciato in aria, e si trasforma in un'astronave; in un solo fotogramma Stanley Kubrick concentra millenni. E' una delle più celebri sequenze di 2001: Odissea nello spazio. Un capolavoro. Un film che sembra contenere il passato e il futuro di tutta la storia del cinema. E' forte quindi la tentazione di cominciare da qui. |
2001: Odissea nello spazio, è un'odissea interplanetaria, una meditazione filoso-fica sui valori dello spazio/tempo e quindi sull'essenza stessa del cinema. E' l'opera di Kubrick che mette più a dura prova gli occhi, ogni immagine può essere tutto e nulla, un mondo aperto o un oggetto chiuso. Un corridoio luminoso infinito è la prima visione/allucinazione di Bowman ma è anche l'elemento architettonico narrativo e simbolico di tutto il film. Precisamente ci troviamo di fronte ad un corridoio "curvo", ripiegato su se stesso, così com'è l'universo secondo Einstein (l'universo è finito perché è "curvo", giacché è stato incurvato dal tempo; in altre parole se lo percorressimo per intero finiremmo col tornare al punto di partenza). Per questo tutte le architetture "galleggianti" (le astronavi) del film sono "curve" e la macchina da presa, nelle inquadrature a loro dedicate, perde ogni punto di riferimento, non trova più l'alto e il basso, la destra e la sinistra. La stazione orbitante su cui giunge il dottor Heywood Floyd (accompagnato nel suo viaggio dalle note de Il Danubio blu di Johann Strauss) è una gigantesca ruota-occhio spaziale che ricorda per enormità e movimento la Ruota del Prater di Vienna; da notare la parte ancora in costruzione: una sorta di work in progress spaziale. Sferica, o meglio a forma di testa, è poi l'astronave che porta Floyd sulla base lunare Clavius (un enorme complesso organizzato secondo cerchi concentrici). Sferica é la plancia del Discovery e sferiche sono ancora le capsule usate dagli astronauti Bowman e Poole nella terza parte del film, sferico è infine l'inquietante occhio del calcolatore HAL-9000. Ossessivamente Kubrick pone l'uomo al centro dell'inquadratura, ma è una cen-tralità che situa l'uomo in posizioni spaziali inedite, con la testa in giù e i piedi in su, oppure trasversalmente con la testa a destra e i piedi a sinistra, o in entrambe le posizioni contemporaneamente come in una litografia di Escher. |
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La figura interna dominante è quindi il cerchio; l'astronauta corre in un corridoio per tenersi in forma fisica, corre in linea retta e il corridoio non finisce, benché sia dentro lo spazio limitato dell'astronave. E' una corsa infinita che trasmette lo stesso smarrimento della corsa del piccolo Danny per i corridoi dell'Overlook Hotel in Shining: l'albergo è concepito anche qui come una totalità infinita, ma pur sempre come una totalità conclusa. All'interno del Discovery il dominio della circolarità è ribadito dall'unico occhio di HAL e, attraverso "soggettive" dello stesso HAL, ci accorgiamo che, nonostante le immagini siano distorte, egli è l'unico "essere" a cogliere lo spazio curvo dell'astronave nella sua totalità. HAL, di conseguenza, prende più volte il posto dell'uomo al centro dell'immagine. Dopo la "morte" di HAL la circolarità del Discovery si trasforma, nella stanza neoclassica di Bowman, in circolarità temporale: attraverso poche inquadrature Bowman passa, dalla maturità alla vecchiaia, dalla morte alla rinascita. Una particolarità di tutti gli spazi sta nella presenza ossessiva del bianco (sempre luminoso) e del rosso (spesso cupo e misterioso). Bianche sono all'esterno tutte le astronavi (un'evoluzione in senso aereo-spaziale di quel "pensiero che si rende manifesto senza parole e senza suoni, ma unicamente attraverso prismi in rapporto tra loro [...] che la luce rivela nei particolari" di Le Corbusier) e bianchissimi sono i pannelli di rivestimento interni solcati, negli interstizi, da nervature che denunciano il profilo delle pareti; completamente bianca e luminosa è infine la scatola spaziale settecentesca in cui si ritrova Bowman. |
Rosso è invece
il colore delle poltrone, sparse in una sorta di grande hall d'albergo,
all'interno della base orbitante. Inondati di luce rossa (come all'interno
di una camera oscura) sono le cabine di pilotaggio delle astronavi e l'interno
della capsula di Bowman; rosso è, infine, l'occhio di HAL e il claustrofobico
spazio in cui risiede la sua memoria. Il bianco separa con decisione il
profilo esterno delle astronavi dal buio infinito dell'universo, contemporaneamente
acceca e annulla le profondità all'interno. Il rosso è invece il colore
di tutti gli oggetti e ambienti che hanno un rapporto più intimo con l'uomo
e i suoi istinti: la tuta spaziale di Bowman, le poltrone su cui si siedono
il dottor Floyd e i colleghi russi, le cabine di pilotaggio e "l'umano"
cervello di HAL.![]() ![]() |
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In una stanza del Settecento, inquadrata secondo una prospettiva frontale fissa, un nobiluomo appare seduto di spalle, a un tavolo apparecchiato. La sala è un perfetto parallelepipedo di colore grigio-azzurro, con una luce che si diffonde dalle grandi finestre a sinistra; il silenzio assoluto è sottolineato dai piccoli suoni delle posate d'argento. La scena somiglia a quella in cui Bowman, intento alla sua solitaria colazio-ne (nella stanza settecentesca di 2001), si volta indietro, verso la porta, sentendo arrivare se stesso. Questa volta però il gentiluomo, lo Chevalier de Balibari, alza solamente il capo verso la porta sul fondo, lontana nella luce e noi vediamo con lui che qualcuno sta realmente entrando. Un uomo avanza, è Barry, il protagonista del film di Kubrick più esuberante e scenografico: Barry Lyndon, del 1975. Barry Lyndon è un film che assume un ruolo particolarmente importante nella filmografia di Kubrick perché costituisce il momento di maggiore libertà e distanza dai temi sociali, filosofici e politici che a Kubrick sono sempre stati attribuiti: violenza, politica, sesso. E' un film fortemente visivo, talmente ricco di immagini e riferimenti estetici (dovute alle vastissime ricerche condotte dall'autore) da farne la più ampia e rigorosa rappresentazione del Settecento che il cinema abbia mai prodotto. La storia viene continuamente ridotta a quadro, a immagine da mostrare, da guardare: una grande tessitura visiva iniziata in esterni, nella profondità di campi lunghissimi e nella fredda luce del nord, dove le figure si stagliano nette sugli orizzonti sconfinati, e chiusa nel fondo nero di una carrozza. La vita del protagonista è un percorso non solo narrativo ma soprattutto iconico e raffigurativo. Predomina una visione frontale dello spazio, una prospettiva sicura che conduce a uno spazio scenico geometrico. In un certo senso si tratta di inquadrature che corrispondono alla visione rinascimentale, che danno quindi un realismo elaborato e costruito simbolicamente, secondo calcoli proporzionali. |
Quando
Barry giunge nella capitale prussiana, Potsdam, basta a Kubrick una sola
inquadratura per mostrarci la città. E' una veduta prospettica centrale,
con un grande viale in fuga fino all'orizzonte, lungo il quale scorrono
carrozze, immagine talmente rigorosa da diventare subito un concetto, un'utopia
rinascimentale, l'idea di città. Tale concezione è mantenuta in tutti gli
interni: le sale immense sono parallelepipedi di spazio completamente vuoti,
in cui i personaggi quasi scompaiono.![]() ![]() |
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Non è un caso
che la situazione bellica e il film di guerra costituiscano il corpus kubrickiano
più esteso: la guerra è vista come un gioco metaforico della vita, condensa-to
e concentrato di essa. Questo interesse trova forse "la prima radice" nell'amore
di Kubrick per gli scacchi (gioco al quale lo ha iniziato il padre, attorno
ai tredici anni), gioco logicissimo che risponde a una serie di regole e
rituali che devono portare istituzionalmente a un vinto e a un vincitore;
un gioco che rimanda, a sua volta, quindi alla stessa logica che presiede
alla guerra. Entrambi hanno infatti come fine la sopraffa-zione dell'avversario.
Tuttavia ridurre il cinema di Kubrick a una formula è ingiusto. L'unica
costante che io riesco a individuare è la straordinaria e geniale capacità
di creare nuovi archetipi quando nessuno più se lo aspetta. ![]() |
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Nella sezione successiva, intitolata "Chiusura invernale", il capocuoco Hallorann parla con il piccolo Danny e lo informa che nell'albergo sono "successe cose non proprio giuste" e che "certe cose che succedono lasciano tante tracce di quello che è accaduto" ma sono tracce che "non tutti possono vedere". E' un po' quello che accade nella nostra mente, per cui certi eventi vengono assimilati e ricordati costantemente (come quelle fotografie appese nell'albergo che ricordano feste e ricevimenti passati) altri invece scendono in quello che Freud chiamò Es, e da qui non riemergono se non sotto forma di sogni, di incubi. L'Overlook Hotel è perciò una metafora della nostra mente perché scatena i suoi incubi soltanto quando si addormenta (ovvero durante la chiusura invernale), ed anche per questo che è ripreso come un immenso labirinto dove non si sa cosa si può incontrare dietro l'angolo. "Un mese dopo" è il titolo della sezione successiva; Danny è sul suo triciclo e, seguito dalla steadycam, percorre velocemente alcuni ambienti dell'albergo, il rumore sordo delle ruote sul parquet sottolinea la sua solitaria presenza; l'Overlook Hotel si è già trasformato in vuoto angosciante, in presenza malefica. Sempre in questa sezione del film Danny e la madre entrano nel labirinto di siepi che sta di fronte all'albergo: i corridoi si spalancano e si succedono uno dopo l'altro aumentando il senso dell'attesa e dell'incubo. La siepe è un'architettura "vuota" che organizza e impone un percorso inutile; nondimeno, si tratta di un'obbligatorietà che incide direttamente sulla percezione del tempo: Jack Torrance muore, urlando come una delle scimmie del Pleistocene di 2001, perché non ha avuto il tempo di trovare l'uscita del labirinto, mentre Danny si salva perché trova nel vuoto apparente dei corridoi vegetali un sistema di riferimenti visivi legato al movimento e al tempo: l'orma dei passi sulla neve. Un segno preciso, labile, irregolare, proprio per questo, un segno che "non tutti possono vedere" nel ritmo cangiante ma identico degli angoli retti, nello spazio infinito e limitato di un'architettura intricata e abnorme. Al labirinto esterno corrispondono i corridoi all'interno, essi guideranno Danny, e il suo triciclo, in uno spazio che assumerà forme incontrollabili, dalle quali sono assenti i punti di riferimento necessari per orientarsi. La sensazione è ripresa dalle multicolori decorazioni (opposte all'uniformità cromatica del labirinto) nelle tappezzerie e nelle moquettes d'albergo. |
Decorazioni geometriche, astratte, che esaltano la bidimensionalità del geroglifico e dei colori primari accostati sulla greca dei pavimenti di camere e corridoi. La decorazione alberghiera risulta così, in apparenza, sovrapposta alla struttura dell'edificio, ma ne condiziona di fatto l'immagine di fronte a chi percorre i suoi spazi affidandosi al solo punto di riferimento sicuro: il numero della camera. Se, per assurdo, qualcuno potesse percorre i corridoi della nostra mente credo che avrebbe sensazioni analoghe ed è possibile che abbia visioni anche più orribili di quelle che ha Danny. Se ogni stanza dell'albergo fosse come un neurone del nostro cervello e il corridoio come il neurite non ci stupiremmo di imbatterci prima o poi in quei ricordi traumatici "patogeni" che secondo Freud possono provocare l'isteria. La stanza 237 è uno di quei ricordi, Jack vi entra e ne esce profondamente trasformato; non solo, lui stesso, da quel momento, comincia a farne parte. Percorrere lo spazio dell'Overlook Hotel significa "conoscere" sequenze tempora-li diverse e parallele. Quando Jack entra nella Golden Room (che sta "trasmettendo" una festa degli anni venti), camminando lentamente tra la folla come un fantasma, non possiamo che rimanere sgomenti; sappiamo che l'albergo è deserto, chiuso, che può essere solo un'apparizione, eppure questa parola risulta inadeguata davanti a una prova fotografica del genere, davanti a un'immagine che non porta nessuna marca soggettiva, nessun indice di allucinazione della macchina da presa, ma che al contrario registra un evento reale, logico ma folle. A ricordarci che stiamo assistendo ad un incubo dell'Overlook c'è Lloyd, il barman, che non vuole essere pagato da Jack perché ha ricevuto "ordini superiori", ma soprattutto c'è il dialogo tra Jack e il cameriere Grady nel bagno bianco e rosso della Golden Room: |
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"Mr. Grady, lei faceva il custode qui, l'ho riconosciuta, ho visto su dei giornali la sua fotografia. Lei ha fatto a pezzi moglie e figlie e poi si è sparato al cervello." "É strano, sir, ma è una cosa che non ricordo affatto." "Mr. Grady, io lo so che lei era il custode dell'albergo." "Mi dispiace di doverla contraddire ma è lei il custode dell'albergo è sempre stato lei il custode. Io lo so perché io sono qui da sempre." |
Jack ormai fa parte della storia dell'albergo è una sua creatura, è "da sempre" il suo custode ed anche dopo la sua morte l'albergo lo tiene con sé trasportandolo, come in un falso ricordo, in una fotografia del 1921. La macchina da presa si avvicina lentamente ad una parete della Golden Room piena di piccole fotografie incorniciate, in una di queste riconosciamo, tra la folla festante, Jack Torrance che, vestito da camerie-re, ci sorride; è l'ultima immagine del film. Eliminati i riferimenti del "prima" e del "dopo" l'orrore dello spazio si presenta come l'esistere, in uno stesso punto e immagine, di più presenze, più tempi in collisione. La totalità dell'albergo è riconoscibile solo attraverso diverse sequenze-puzzle contenenti una serie innumerevole di significati. Shining, film dall'ingranaggio perfetto, è un puzzle in cui le giunture tra i pezzi reciprocamente accostati sono, di fatto, invisibili. Ogni servizio, ogni settore dell'Overlook Hotel sembra obbedire alle più sofisticate esigenze funzionali, anche se (almeno per noi) è praticamente impossibile ricostruire la pianta dell'edificio e ciascuna stanza, ciascun corridoio sembra visto per la prima volta. Il succedersi degli angoli e dei corridoi è "prevedibile" (sappiamo che, ad un certo punto, un muro si piegherà a gomito, o si aprirà in una porta), ma ciò è inutile visto che non sappiamo nulla del ritmo con il quale porte e spigoli, si alternano: e sospettiamo che non lo conosceremo mai. Né l'albergo, né il labirinto sono spazi coscientemente intellegibili dalla famiglia Torrance; dell'uno e dell'altro abbiamo due visioni d'insieme, all'inizio del film: il primo con una veduta aerea, il secondo attraverso un modello che Jack osserva nella sala immensa in cui ha deciso di scrivere il suo romanzo. In questa sequenza attraverso una soggettiva di Jack il labirinto occupa tutta l'inquadratura diventando un arabesco, una decorazione geometrica simile a quelle che ricoprono i pavimenti dei corridoi e delle camere nell'albergo; tuttavia man mano che la macchina da presa stringe verso il centro del labirinto ci accorgiamo che non stiamo affatto in una soggettiva di Jack e tanto meno stiamo guardando un modello, al centro del labirinto vediamo, infatti, che qualcosa si muove: sono Danny e la madre che, poco prima, vi erano entrati. Il labirinto oscilla, dunque, tra due dimensioni: quella bidimensionale dell'ornamento e quella tridimensionale del corridoio. La prima dimensione sembra quella più congeniale all'isteria di Jack ma quando egli si cimenta con quella tridimensionale inesorabilmente regredisce allo stato di scimmia urlante e, da qui, a inanimato blocco di ghiaccio. Nei primi film di Kubrick il procedimento dominante risulta essere una rappresentazione frontale e plurima degli oggetti e delle persone, mediante carrellate laterali il punto di vista è spesso unitario (si rispettano le regole prospettiche facendo convergere tutto in un punto) e la visione conseguentemente frontale. Lo spazio diventa perciò una scatola, negli interni, e un luogo ideale rigorosamente progettato negli esterni. Per Kubrick lo spazio è importantissimo perché utilizzato per produrre forti connotazioni simboliche: spesso nei suoi film le vicende si svolgono in spazi chiusi con limitate possibilità di muoversi per i personaggi, tuttavia lo spazio sembra sottoposto a continue possibilità di dilatazione o restringimento. I personaggi sono imprigionati nei loro spazi, spazi che misurano non solo con i passi e gli sguardi, ma soprattutto con le loro emozioni, pulsazioni e cambiamenti della frequenza respiratoria. Il corridoio è perciò lo spazio che Kubrick predilige perché appunto fortemente limitato in una direzione ma potenzialmente infinito nell'altra. Il corridoio è uno degli elementi architettonici più "superflui" dal punto di vista funzionale (non vi si abita, non vi si svolge alcuna attività); la sua superficie però ci conduce verso comportamenti significativi ovvero a luoghi carichi di valore simbolico. Lo scopo di un corridoio è sempre, infatti, "al di là" della sua esistenza. In 2001, il corridoio si identifica con il tema quadridimensionale-geometrico della circonferenza e della circolarità; nel Dottor Stranamore con la corsa del micidiale aereo che conduce alla catastrofe nucleare; ne Il bacio dell'assassino con la strada cittadina percorsa "in negativo". Altra presenza architettonica importante nel cinema di Kubrick è la finestra. Ci sono importanti finestre dietro a tutti i principali personaggi kubrickiani e quando queste si riducono cresce l'influenza sui comportamenti. Le fessure dei fortilizi contribuiscono alla vittoria del capitano Potzdorf in Barry Lyndon nonostante l'ufficiale sia ferito in seguito alla caduta di una trave del soffitto. Da una stretta apertura della sua capsula David Bowman, in 2001, riesce a tornare nell'astronave-madre per disinserire la memoria di HAL; nel lucernario di una abitazione Alex, in Arancia meccanica, cerca l'eterna liberazione dagli effetti della "cura Ludovico" tentando di togliersi la vita (e l'aver attraversato quella finestra gli farà sembrare d'aver dormito "un milione di anni"); in Shining, infine, la piccola finestra del bagno dà a Danny, la possibilità di fuggire dal padre, più tardi costretto a inseguire il piccolo nel labirinto. |
Con pari insistenza, Kubrick attribuisce alla scala (altro elemento necessario allo sviluppo volumetrico di un edificio) una funzione non soltanto architettonica, ma figurativa e narrativa portante. La finestra regola la conoscenza dello spazio esterno e la comunicazione tra i mondi; la scala porta le medesime capacità all'interno dell'appartamento. Sulla scala esplodono gli elementi scatenanti il dramma o che determinano radicali mutamenti nella vita degli individui (esemplare è la doppia salita dei gradini pieghevoli nelle carrozze di Barry Lyndon: il falso Chevalier de Balibari che riesce a fuggire dopo l'episodio della sala da gioco; lo sconfitto Redmond accompagnato dalla madre sulla carrozza che lo porterà all'esilio) o, ancora, che imprimono alla narrazione una diversa andatura. I gradini della scala mettono in comunicazione (o separano) non solo piani architettonici e piani di narrazione, ma anche diversi tempi e modi di raccontare. Jack Torrance salendo le scale dell'enorme sala-studio in Shining pronuncia la frase "Wendy, tesoro, luce della mia vita" (parafrasi dell'incipit del Lolita di Nabokov) riproducendo, nello sguardo e nella lenta determinazione dei gesti, il comportamento di Humbert sulla scala che sarà teatro dell'uccisione di Quilty e punto di partenza per il lungo cammino a ritroso che riassume l'itinerario di Humbert verso la dissoluzione. Corridoio. Finestra. Scala. Entro queste presenze si muovono le sequenze più po-tenti girate da Kubrick. Egli sente gli spazi e i suoi elementi, ne coglie l'essenza e per questo li trasforma, li deforma (attraverso un grandangolo, un teleobiettivo o la steadycam) per toglierci quanto di assodato sapevamo su di loro e per fornire quel terzo occhio, che è la nostra immaginazione, di una singola, potente lente. Attraversando un corridoio, salendo le scale o aprendo una finestra possiamo, vivere incubi, vedere la nostra faccia invecchiata e poi rinascere, possiamo essere malefici, scoprirci violenti e assassini, bambini impauriti, oggetti di indagine e al tempo stesso indagatori. L'architettura resta comunque un mezzo per Kubrick mai un fine, la sua ricerca va oltre ma non si può non rimanere folgorati dal suo modo di avvicinarsi ad elementi che tanto ci sembravano familiari ma che in realtà hanno ancora molto da dire; una vera e propria lezione su come gli spazi possono incidere sulle nostre vite, sulle nostre emozioni e passioni e che in fondo non sono quello che sono. | ![]() |
BIBLIOGRAFIA
CONSULTATA
GHEZZI E., Stanley Kubrick, La Nuova Italia, Firenze 1977. BRUNETTA G. P. (a cura di), Stanley Kubrick: Tempo, spazio, storia e mondi possibili, Pratiche Editrice, Parma, 1985. BERNARDI S., Kubrick e il cinema come arte del visibile, Pratiche Editrice, Parma, 1990. EUGENI R., Invito al cinema di Kubrick, Mursia, Milano, 1995. CREMONINI G., Stanley Kubrick: l'arancia meccanica, Lindau, Torino, 1996. TESTO A CURA DI FRANCESCO SAVONE , corso di: "Teorie e Tecniche della Progettazione Architettonica"-Politecnico di Milano-Facolta' di Architettura |